Il Giardino

 

Il giardino di Palazzo Pianetti, elemento di cerniera tra il palazzo e il paesaggio naturale, ha il suo modello progettuale di riferimento nel trattato di Vincenzo Scamozzi “Idea dell’Architettura universale” uscito a Venezia nel 1615. La cultura rococò si disvela nelle linee flessuose ed inarcate delle aiuole, così come nell’assenza di angoli e spigoli vivi, nelle spallette di recinzione e negli spalti delle scalinate che introducono percorsi aerei, sopraelevati, di immediato accesso anche dagli ambienti interni del palazzo. La numerosa presenza di sculture dichiara fin da subito l’importanza che ad esse si attribuiva come segnali di un percorso allegorico di cui il luogo voleva essere espressione. Di concezione veneta, il gruppo di statue venne realizzato nel 1756 dal padovano Antonio Bonazza, esponente prestigioso di una famiglia di scultori attiva dal ‘600 fino all’800, soprattutto nella statuaria da giardino, e messe in opera dal Maiolatesi. Le sculture rappresentano le virtù necessarie all’opera di amministrazione degli aristocratici signori: Prudenza, Giustizia, Fortezza, Nobiltà, Generosità, Temperanza e sono in sintonia con le decorazioni del palazzo, tutte di tema laico. Purtroppo alcune di queste sculture sono state trasferite in altra sede, mentre rimangono al loro posto i busti della Pittura, dell’Architettura, della Musica e della Scultura. Le altre opere propongono il ciclo allegorico delle forze della natura che vengono controllate dalla ragione, ad indicare il ruolo sociale assunto dalla famiglia Pianetti. Si tratta di divinità maschili e femminili in coppie che si fronteggiano specularmente: al vertice delle ali laterali abbiamo rispettivamente Bacco e Cerere, auspicio di abbondanza; Ercole e Jole, figure mitologiche collegate agli antichi riti di fertilità. Quest’ultimo concetto è rinnovato dalla presenza di Flora e Zefiro, che simboleggiano l’eterno rinnovarsi della natura e di Vertumno e Pomona, simboli del continuo maturarsi dei frutti. Sulle terrazze e sulle scale di collegamento a Mercurio, che guida le anime nell’oltretomba, fa da contraltare Palaistra che rimanda all’immortalità; a Saturno che mangiava i suoi figli si oppone Opis gelosa custode dei suoi; Marte, dio della guerra, si confronta con Venere, regina dell’amore così come al solare Apollo si oppone Diana, simbolo della luna. Conclude la teoria degli dei dell’Olimpo, Giove a cui si contrappone la moglie Giunone. Il recinto del parterre è scandito dalla successione di dodici puttini chiamati a rappresentare, a gruppi di quattro, le Stagioni, gli Elementi della Natura e le Parti del Giorno, secondo un disegno iconografico rilevabile anche nella decorazione degli ambienti del palazzo. Divinità del mare emergono dalle vasche a conchiglia scagliate in alto dal guizzo di delfini e cavalli marini. In primo luogo il re degli abissi, Nettuno, e poi Glauco, l’infelice pescatore innamorato di Scilla e tramutato in Tritone; poi, le nereidi, Galatea, amata dall’orrido Polifemo e Anfitrite (a sottolineare il rinnovamento rappresentato dall’acqua), sposa di Nettuno e regina dei delfini. Completavano il giardino una fontana a vento, fornita nel luglio del 1759 dal fontaniere bolognese Antonio Farioli, capace di graziosi e sorprendenti giochi d’acqua, ed un orologio meccanico di cui rimane solo il quadrante dipinto sulla Prospettiva, realizzato nel 1753 da Francesco Livisati. Un “giardino delle meraviglie”, dunque, di cui gli jesini parlavano ammirati e che doveva tramandare la favola bella della Fama che sconfigge il Tempo secondo l’allegoria delle due statue semisdraiate sulla torretta centrale.

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